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Lezioni per vivere la malattia secondo Tito

james geaney 450Nemmeno per un minuto oserei paragonarmi a Tito Brandsma, carmelitano, che sta per essere canonizzato santo. L'unica cosa che abbiamo in comune è il nostro essere "carmelitani", niente di più. Ma non posso fare a meno di vedere alcuni parallelismi nei viaggi delle nostre vite, che mi confortano mentre invecchio e devo finalmente affrontare la morte in tempo reale come fece Tito. I parallelismi sono: dolori di pancia che sono come pugni allo stomaco imprevisti (o notti oscure passive dello spirito) causati da 1) tempo forzato trascorso tutto solo nella propria cella, e 2) la prospettiva di una morte prematura che pende sulla propria testa. Entrambe le esperienze portano ad un senso di inutilità e ad un senso di impotenza schiacciante.

Forse Tito ha visto arrivare la sua incarcerazione in Olanda negli anni '40, ma io non ho visto arrivare la pandemia di Covid nel Perù in 2020. Nel marzo del 2020 mi sono trovato a passare da pastore occupato a Pucusana, una città di pescatori a sud di Lima, alla vita isolato in cella nella casa parrocchiale di Pucusana. Era una stretta chiusura, la madre di tutte le chiusure in Sud America in quel momento. Improvvisamente la mia cella divenne più di un semplice rifugio diurno dagli obblighi pastorali o un posto notturno dove posare la testa. Divenne un vero e proprio eremo in stile XIII secolo, del tipo che si poteva trovare sul Monte Carmelo nel 1207 o giù di lì.

Il 19 gennaio 1942, la vita normale di Tito, piena di attività veementi, cambiò drasticamente. Si ritrovò tutto solo in una vera cella con sbarre e serrature, e la sua prima reazione fu: "Ora sto ottenendo ciò che ho sempre desiderato nella vita. Vado in una cella dove finalmente diventerò un vero carmelitano". "Fu quasi con un senso di gioia che abbracciò la solitudine della sua cella e si concentrò sulla reale presenza di Dio che lo accompagnava in ogni momento, giorno e notte. Nel silenzio della sua cella avrebbe dovuto fare i conti con un più profondo senso di sé e dare un nuovo significato al modo in cui trascorreva le sue giornate, non sentendosi più utile come era sua abitudine quando lottava per la pace e la giustizia e l'uguaglianza nel suo lavoro come Rettore dell'Università.

Il mio isolamento dovuto alla pandemia nella parrocchia di Pucusana non è stato così gioioso, anche se ho sperimentato un senso più profondo della presenza di Dio nella mia vita. Avevo anche qualche buona lettura spirituale per tenere alto il mio spirito, come il libro su Tito intitolato Incontro con Dio nell'abisso di Constant Dölle. Allo stesso tempo stavo sperimentando un grande senso di colpa (chiuso nella mia stanza come un codardo mentre la gente in città andava al lavoro - infermieri e dottori con i pazienti di Covid, persone che si occupavano dei negozi nella piazza del mercato, autisti di autobus e pescatori, lavoratori essenziali). Tuttavia, a differenza di Tito, non ero impotente. Ho chiesto al mio Superiore un cambio di sede, e sono potuto andare nel nostro Noviziato ad insegnare alcune lezioni ai Novizi... il che mi ha dato un po' di sollievo.

Il sollievo durò un paio di mesi. Poi lo Spirito colpì di nuovo con un secondo pugno allo stomaco (seconda notte oscura passiva dello Spirito). Una notte, dopo aver preparato le lezioni, cominciai ad urinare sangue. Diversi esami e operazioni più tardi il medico diagnosticò un cancro maligno nella vescica. Dopo l'asportazione del tumore ho dovuto trasferirmi nella nostra casa centrale di Miraflores, ancora una volta confinato nella mia cella durante la terapia, sperimentando non solo l'inutilità, ma l'impotenza e, come Tito, dovendo essere realistico sulla possibilità di morire in un futuro non troppo lontano. Presto avrei compiuto 88 anni.

La fortuna volle che la mia terapia cominciò a funzionare e tornai alla parrocchia di Pucusana ma con delle capacità di lavoro limitata. La sfida ora era come continuare a lavorare senza essere amareggiato. Tito mostrò di nuovo la strada. Sulla strada per Dachau via Kleve fu gettato in celle più piccole e più affollate. Fu un periodo di terribile sofferenza fisica e spirituale per Tito, una terribile notte oscura passiva, ma una notte di enorme consolazione per coloro che ebbero la fortuna di condividere la loro vita con la sua. Tito poteva prevedere la sofferenza che sarebbe venuta a Dachau, non più in una cella privata, ma gettato nella cella comune con migliaia di altri prigionieri. In una delle sue poesie, scrisse: Ma il dolore per me è una benedizione per il mio cuore, perché il dolore mi fa diventare come Te". La notte buia lo avrebbe trasformato, così come il tempo trascorso nella sua cella, nel Dio della compassione e della misericordia di Dachau. La sua attenzione non sarà più rivolta a Dio e a sé stesso, ma a Dio e ai suoi fratelli prigionieri, incarnando in sé stesso l'arcana ma precisa definizione dell'amore: "quando i bisogni degli altri sono più grandi dei miei". Non importa quanto soffrisse ai lavori forzati o venisse punito fisicamente da soldati sadici, sarebbe sempre stato lì per i suoi fratelli i cui bisogni erano più grandi dei suoi. Andava a trovare ognuno di loro ogni giorno nei loro alloggi comuni, una parola consolante per tenere alto il loro spirito, un abbraccio amichevole per rinnovare la loro fede nell'amore, una preghiera tempestiva per dare loro la forza di superare la giornata, mentre lui stesso camminava alla cieca in una notte oscura dell'anima.

La trasformazione di Tito fu sottile ma totale. Il suo mentore, Giovanni della Croce, ha detto nel suo Cantico spirituale: "Nessun gregge è ora sotto la mia cura, nessun'altra fatica condivido, e solo ora nell'amare è il mio dovere". Tito non aveva più un gregge da accudire in Olanda. Non era più considerato un illustre studioso che poteva risolvere problemi educativi o tenere profondi discorsi teologici o scrivere profondi articoli di giornale. Gli restava solo l'amore: occuparsi dei bisogni dei suoi fratelli prigionieri, i cui bisogni erano più grandi dei suoi. E così Tito si preparò alla morte per iniezione letale accettando umilmente il suo attuale stato di sconforto e successivo rifiuto: "pati e contemni" - soffrire per mano delle guardie ed essere disprezzato, diventando nulla, niente, solo un numero 30492. Ma allo stesso tempo si stava fondendo con il Dio dell'Amore e della Compassione e della Misericordia, diventando amore, che era tutto.

Come ho detto all'inizio, non oserei mai paragonare la mia vita a quella di Tito. Ma come mi ispira a terminare il mio cammino carmelitano qui sulla terra come un nessuno, un niente, non cercato, non consultato, non necessario, lasciando solo l'amore, come direbbe Thomas Keating. L'amore è l'unica cosa che conta alla lunga. Tito ha condiviso l'amore di Dio con i suoi compagni di prigionia fino alla fine e, infine, con la sua infermiera, Tizia, che a malincuore ha dovuto somministrare la sua definitiva iniezione letale. Si sentiva così dispiaciuto per lei e cercava di alleviare il suo senso di colpa - il suo bisogno era più grande del suo nell'ultimo momento della sua vita. Che grande esempio!  

Dio sa quanti mesi o anni ho ancora da vivere. L'unica cosa che so ora è come morire. San Tito, ti preghiamo, mostraci la via.

Gregory James Geaney, O. Carm.

Pucusana, Perú

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